Non appena Jacopo aprì il portone e si affacciò sulla strada la calura afosa dei primi di settembre lo colpì come uno straccio bagnato in pieno volto.
Avvertì soltanto per un istante il pizzicore sulla tempia che annunciava l’imminente inizio della sudorazione, giusto il tempo di un passo di danza accennato sottopelle nel gran ballo di ghiandole che già una goccia si affacciò, prese coraggio e pionieristicamente prese a scendere lungo la sua guancia. Fu prontamente seguita da altre compagne, smaniose di conquistare il territorio sul suo volto.
Uno sbuffo di vento caldo e polveroso fece rotolare lentamente un bicchiere di plastica vuoto in strada, parodia di un western di terza serie. L’asfalto bollente faceva tremare l’aria sovrastante, che cercava anch’essa di fuggire da quel nero inferno scappando verso l’alto.
Guardò l’orologio: mancavano pochi minuti a mezzogiorno. Aveva fatto decisamente tardi, ma ciò non gli avrebbe impedito di prendere un caffè al Bar del Parchetto.
La sua attenzione fu attirata però da un batuffolo nero che dall’altro lato della strada si contorceva, saltava, tendeva agguati a qualcosa, poi fuggiva spaventato per qualche metro per tornare subito ancora a inseguire nuovamente la sua pugnace preda.
Si avvicinò un po’, spinto dall’irresistibile desiderio che, nonostante l’alta probabilità di rimediare graffi o parassiti, lo aveva da sempre portato a tentare di coccolare qualsiasi forma di vita felina. Attraversò la strada e si rese conto che, nonostante quel gatto non fosse di certo più un cucciolo, stava investendo tante energie nell’infruttuosa caccia a una fogliolina verde mossa dal vento e dalle sue stesse zampate.
Nella sua vita si era fino ad allora imbattuto in un unico gatto che uguagliasse quello in stupidità, l’estate precedente, ma apparteneva ormai a un’altra epoca. Eppure, la somiglianza era impressionante. Lo stesso pelo lucido e nero, le stesse orecchie un po’ piegate, le stesse zampette bianche e lo stesso musetto bianco che contrastava fin troppo con il resto del corpo. E soprattutto, la stessa iperattività.
– Barbabianca? – provò a chiamarlo, un po’ titubante. Subito drizzò le orecchiette come antenne verso il cielo, incuriosite da quel suono che doveva apparirgli familiare, e lo apostrofò con un miagolio interrogativo.
– Barbabianca! fece più convinto, al che lui reagì sparando in alto la coda come un punto esclamativo posto a enfatizzare la sua sorpresa.
In un istante gli fu tra le gambe, e in un orgasmo di fusa prese a succhiare l’orlo dei suoi jeans come aveva fatto l’anno precedente per un’intera estate, evidente lascito di un trauma dovuto al distacco prematuro dalla madre.
Jacopo iniziò a carezzarlo sulla schiena come aveva già fatto per mesi, riflettendo su quanto fosse sbagliata e priva di senso la sua presenza lì, quel giorno.
Barbabianca era il gatto che per puro caso aveva in qualche modo adottato l’anno precedente con l’allora sua ragazza, Melissa. Era letteralmente piombato loro addosso in una torrida sera di fine luglio, quando per sfuggire al pressante controllo della madre di lei si erano rifugiati in una minuscola radura tra gli alberi di un vivaio, uno dei verdi spartiacque posto tra la periferia a sud di Roma e il nulla cosmico che conduce fino al mare. Nel vederlo giocare con quella foglia, a Jacopo sembrò di tornare a quella sera dell’estate precedente, avvertendo nell’odore delle piante del parchetto cotte dal sole di mezzogiorno l’aroma dolciastro della vegetazione.

Erano impegnati nel reciproco ascolto dei loro silenzi densi di sentimento quando la luce della luna fece balenare tra i cespugli due sottili occhi gialli.
– Forse è una volpe – disse lei.
– Qualsiasi cosa sia, è inquietante.
– Non ci far caso.
Tornò a poggiare la testa sul suo petto, ma lui non riusciva a tranquillizzarsi del tutto.
– E se ci attaccasse? – continuò lui.
– Le volpi non attaccano la gente a caso.
– E se lo facesse?
– Non potrebbe farci niente di che – affermò lei placidamente. Evidentemente il concetto di idrofobia non aveva mai neanche bussato alle porte della mente di una persona che considerava qualsiasi animale alla stregua di un innocuo agglomerato di pelo e amore da coccolare e carezzare.
– Non possiamo cacciarla?
– E come?
– Andandole incontro potrebbe spaventarsi.
– E vai, allora.
L’idea che lui potesse ingaggiare un duello a singolar tenzone con una volpe sembrava divertirla.
– Se muoio denuncia tutti – disse Jacopo a Melissa, non sapendo neanche lui chi fossero i “tutti” né tanto meno quante fossero le possibilità di vedere una volpe in un’aula di tribunale. Quella frase comunque gli diede le garanzie necessarie per provare la sua impresa.
Non fece in tempo a tirarsi su seduto che la temibile belva attaccò.
Invitato dal movimento, quel micetto nero gli si fiondò in braccio iniziando a pompare con tutte le sue energie con le piccole zampine, mentre con il musetto bianco che spiccava sul resto della livrea aveva giù iniziato a tentare di suggere latte dalla camicia di lui, causando in entrambi loro un vertiginoso picco glicemico che quasi li stroncò. A suo modo, quella creaturina era riuscita a nuocere.
– Sembra avere la barba bianca, guarda che carino che è – lo battezzò involontariamente Melissa.
– E a quanto pare ti ha scambiato per sua madre.
– Quindi tu saresti il padre.
– Che micio progressista.
Nelle settimane successive tornarono ogni singola sera in quel vivaio, e ogni singola sera Barbabianca spuntava tra i cespugli dopo pochi minuti, costringendoli a limitare fortemente le loro effusioni per adempiere ai loro doveri di genitori adottivi.
Barbabianca divenne parte integrante della loro relazione, che dopo gli idilli dei primi tempi si era con il passare dei mesi consolidata in un rapporto dalle basi granitiche e incrollabili: alternavano sapientemente la passione ardente e la serafica tranquillità, la stimolante gelosia e la corroborante fiducia, l’emozionante sorpresa e la rilassante routine. Insomma, tutto procedeva a gonfie vele.
Talmente a gonfie vele che l’esperienza genitoriale durò poco: esattamente un mese e ventitré giorni dopo l’incontro con Barbabianca lei lo lasciò.

Quando il ricordo dell’estate precedente sfumò, a Jacopo sembrò ancor più impossibile la presenza del gatto lì, a così tanti chilometri dalla sua abituale dimora, dopo così tanto tempo.
Forse era un fantasma.
In fondo mancavano soltanto pochi minuti a mezzogiorno, attimo indicatogli da una sua anziana zia come quello in cui si aveva la maggior probabilità di apparizioni ultraterrene, molto più della mezzanotte.

Glielo raccontò in una sera di San Silvestro giù al paese, durante una cena in cui le molte bottiglie di Falanghina avevano disciolto anche le lingue più annodate e spalancato la botola su argomenti considerati quasi tabù. Man mano che il vino bianco frizzantino scorreva nelle gole e l’alcol andava lentamente ma inesorabilmente a incrementare la sua percentuale nel sangue, anche i parenti più superstiziosi a tavola iniziarono a raccontare improbabili aneddoti sulle apparizioni di mezzogiorno, come di quelle volta che Zì Nicòl’ incontrò il fantasma di un generale tedesco del terzo Reich a cavallo che gli chiese indicazioni per tornare a Erlangen; o di quella volta che un motociclista a bordo di una moto d’inizio novecento tagliò la strada che risale una delle colline del Sannio a Zì Pascàl e precipitò a valle, sparendo nel nulla; per arrivare infine alla testimonianza di Zì Peppìn che affermava di aver visto una singola coscia di mucca dotata di vita propria aggirarsi indisturbata saltellando sull’unico zoccolo per il campo che stava arando.

Un movimento lo ridestò da quei racconti passati: d’improvviso tra le buste accatastate intorno ai bidoni stracolmi d’immondizia che delimitavano in maniera brutale la bruttezza della strada dalla placidità del parchetto fece capolino un lampo fulvo, che in un sinuoso movimento si rivelò essere una coda saldamente attaccata al corpo di una volpe. Incuriosita dalla presenza del gatto, si avvicinò senza alcun timore. Qualsiasi piccolo felino sarebbe fuggito a zampe levate di fronte alla presenza di un predatore sì minuto, ma comunque a lui superiore nella catena alimentare, ma non Barbabianca: per nulla preoccupato continuò a flirtare con i jeans, fino a quando la volpe non fu praticamente a sua volta tra le gambe di Jacopo. Questo non fece che aumentare i suoi sospetti riguardo la natura ultraterrena di quel gatto fuori posto, spuntato direttamente dal passato per gettare sale sulle ferite.

Vedendo quella volpe così vicino a lui, gli fu chiaro il sentore che lo aveva accompagnato nel corso degli anni: nella sua vita il concetto di volpe e di fantasma erano spesso andati a braccetto, abbracciandosi e miscelandosi fino a diventare un’unica entità.
Fu la sera della vigilia del suo sesto Natale che vide per la prima volta una volpe.
Si stavano dirigendo verso casa di sua nonna quando una di loro attraversò il raggio dei fari, dopodiché si fermò sul ciglio della strada e li osservò sfilare via, tenendo fissi su di lui gli occhi gialli.
Quella fu anche la sera in cui vide per la prima volta un fantasma.
Con l’approssimarsi della mezzanotte tutti i commensali si recarono nella chiesa dall’altro lato della via, a eccezione di un ristrettissimo gruppetto di quattro o cinque zii dagli stomaci satolli che si professarono atei. Uno di loro lo era davvero. Con loro rimase anche il piccolo Jacopo, sopraffatto dalla pigrizia e dall’indolenza nei confronti di una celebrazione così lunga, che lo avrebbe tenuto per diverse ore lontano dal bottino di torroncini e struffoli rimasti incustoditi.
Nell’arco di un paio di minuti i sensi di colpa vinsero però la guerra civile che si stava combattendo in lui, e decise di raggiungerli. Scese di corsa le scale e si affacciò sul cortile buio, nel quale la luce del portone proiettò la sua ombra.
Affianco a un’altra.
Nasceva da un punto indistinto sulla sua destra, ma lui era perfettamente solo. Rimase impietrito per una decina di eterni secondi, il tempo sufficiente per vederla delinearsi nell’immagine di una donna che danzava. Si agitava tutta scuotendo allegra i lunghi capelli al suono delle campane, ma i suoi piedi si congiungevano al gradino di marmo anziché a un corpo. Fuggì precipitosamente in casa, muto di terrore, seguito fortunatamente solamente dalla sua ombra. Nessuno gli credette, ma era normale: era solo un bambino.
La seconda volta che vide un fantasma fu molto tempo dopo, nell’autunno dei suoi quindici anni.
L’estate gli aveva portato in dote insieme all’abbronzatura l’abitudine di andare a correre tutti i giorni su una piccola strada sterrata che dal quartiere si insinuava serpeggiando negli ultimi campi di grano sopravvissuti alla fame feroce del cemento, ma il naturale accorciarsi delle giornate si palesò in tutta la sua evidenza una sera in cui si ero spinto piuttosto oltre le sue capacità, gettando il cuore oltre l’ostacolo senza preoccuparsi se il corpo lo avrebbe seguito o meno. Il buio sopraggiunse rapidamente quando si trovava a diversi chilometri dalla prima via asfaltata e illuminata. Riponendo le sue speranze di non inciampare nella flebile luce della torcia del cellulare, iniziò faticosamente a tornare al piccolo trotto, accompagnato solo dalla cassa dei passi lenti e pesanti e dal rullante del fiatone.
Iniziò presto a sentire qualcosa alle sue spalle, ma era certo si trattasse solamente della più classica delle suggestioni. Fin dagli albori della specie l’uomo ha avuto il terrore del buio, che togliendogli la vista lo poneva in una condizione di inferiorità rispetto ai predatori, che invece nell’oscurità vedevano benissimo.
Continuò a correre illuminando lo debolmente lo sterrato, ma la sensazione che ci fosse qualcuno – o qualcosa – dietro di lui si faceva sempre più forte. Sembrava correre a meno di un passo da lui: se avesse allungato un braccio dietro la sua schiena certamente avrebbe potuto toccarla. Ne sentiva sul collo l’alito caldo, rilassato, senza alcuno sforzo.
Si fermò di colpo e si voltò di scatto proiettando il fascio di luce alle sue spalle, ma non riuscì a vedere assolutamente nulla. Ebbe soltanto la percezione di un’ombra, e dopo un istante ricominciò a sentire la presenza, che si era portata nuovamente alle sue spalle.
Si voltò nuovamente e forse le passò attraverso, correndo a perdifiato senza preoccuparsi più di cosa il cellulare illuminasse.
Puntualmente finì a terra, affossato dalla prima buca di quella strada sconnessa.
– Va bene, è finita, mi hai preso – disse sconsolato.
Rimase steso a terra aspettando il peggio, stordito dalle pulsazioni del cuore che gli percuotevano i timpani fino a rischiare di lacerarli. Il cellulare era lì di fianco, spento dopo l’urto, e non si sarebbe più acceso.
La sentiva intorno a sé, che camminava in cerchio, che lo fissava. Quello sguardo aveva un qualcosa di etereo e ineffabile, certamente rassicurante, forse dolce.
Non lo stava braccando.
Lo stava proteggendo.
Si rialzò faticosamente. Le ginocchia lanciarono grida di protesta, ma con molta calma riuscì a rimetterle in riga e a rimanere in piedi. Riusciva a mala pena a camminare, ogni passo era un’agonia amplificata dal terreno che era costretto a tastare centimetro dopo centimetro con le suole per non finire di nuovo a baciare il terriccio.
La presenza continuava a seguirlo a un paio di metri di distanza, osservandolo premurosamente.
In capo a mezz’ora arrivò ai primi lampioni, e l’ombra si fermò lì per non essere dilaniata dalla luce. Proseguì il suo lento ritorno verso casa, e fu solo dopo un paio di minuti che notò dall’altro lato della strada una volpe che lo fissava incuriosita. Abbassò lo sguardo e continuò a poggiare a terra un piede dopo l’altro senza curarsi se lo seguisse o meno, ma era certo che l’avrebbe scortato fino al portone.
Lì, ad attenderlo, trovò una volpe, che corse a nascondersi tra le auto parcheggiate.
Incontrò una volpe anche qualche anno dopo, nel tragitto che quotidianamente lo conduceva da casa a scuola nella mattina in cui incontrò per la prima volta Melissa.
Si era imbarcato in una faticosissima relazione a distanza da meno di due settimane quando la vide. Saliva le scale dell’ingresso quando in un angolo intravide chiaramente gli occhi della sua fidanzata.
– Non può essere vero – si disse, e infatti non lo era: quegli occhi erano sì gli stessi, ma erano incastonati in un viso dai tratti più teneri circondato da un caschetto corto di capelli neri, accompagnati in quella armoniosamente dolce composizione da un naso più delicato e da una bocca impegnata in un sorriso che a forza di riscaldare cuori aveva contribuito per larga parte al surriscaldamento globale. Rimase qualche secondo incantato a fissarla mentre superava gli ultimi gradini, rischiando di perdere la faccia metaforicamente e non. Lei lo fissò a sua volta, avendo forse percepito il peso di quello sguardo. Poi, quando lui varcò la soglia e lei tornò a parlare con le amiche, il contatto tra i loro occhi si interruppe assieme a quello tra il cuore e il cervello di lui. Rimase turbato per qualche ora. All’uscita lei camminava una decina di passi avanti rispetto a lui che la riconobbe dalla camicia azzurra, ma non si voltò che per un istante. Fu più che sufficiente per turbarlo nuovamente. Ovviamente non disse nulla alla sua ragazza: aveva la più ferma intenzione di non rivolgere mai la parola alla lei senza nome, non era minimamente contemplata l’idea che lui potesse parlare con una ragazza come quella ma non solo, non lo era neanche l’idea che potesse parlare con un’altra ragazza punto e basta.
Quello sguardo continuò a torturarlo per due anni. Per più di settecento giorni rimase insieme alla sua fidanzata, fedele tanto a lei quanto al suo proposito di non rivolgere mai la parola alla lei sua compagna di scuola. Ogni vacanza diveniva occasione per scostarla dalla mente, ma ogni maledetto lunedì bastava uno sguardo per farle prendere nuovamente posto sul suo altare.
Moriva dalla voglia di conoscerla, ma sapeva che sarebbe stato del tutto inutile: la conosceva già finanche nei più miseri anfratti dell’anima, e lei conosceva parimenti lui.
Giorno dopo giorno Jacopo si sentiva sempre più in colpa nei confronti della sua ragazza per il crescente coinvolgimento che provava per quello sguardo, che stava toccando apici mai raggiunti dal genere umano: fin dalla prima occhiata si era reso conto di trovarsi ad avere a che fare con due persone completamente diverse l’una dall’altra. Prima o poi una delle due sarebbe dovuta uscire di scena.
Venne a sapere quale fosse il nome di lei per vie traverse: una volta la vide parlare con un suo conoscente del corso A, un robot di forma umanoide il cui intero patrimonio genetico accettabile era stato investito in materia grigia; lo rincontrò poco dopo e lo fermò, vincendo il timore di ritrovarsi invischiato con lui in una conversazione che superasse i quindici secondi, che era ciò che lo aveva sempre fatto restare nel novero dei conoscenti senza mai salire di livello.
– Ciao, ti cercavo prima ma ho visto che stavi parlando con… Aspe’, con… Non mi viene il nome…
– Ma chi, Melissa?
– Eh, proprio lei! – e fece per andarsene.
– Aspetta, per cosa mi cercavi? – chiese il collega, ma lui già non lo sentiva più: era troppo indaffarato a ripetere tra sé e sé le tre meravigliose sillabe. Ritornò con qualche difficoltà in classe, trascinando pesantemente qualche miliardo di cellule perse tutte in nome.
Iniziò presto a vivere un rapporto di amore e odio con lei: per cercare di non farsi prendere troppo tentò in ogni modo di trovarle dei difetti; per chissà quale motivo si convinse per qualche mese che fosse una persona arrogante, forse perché la vedeva perennemente circondata di amiche che combattevano all’arma bianca per il privilegio della sua attenzione. Nonostante ciò, non evitava mai di fissarlo quando passava, sempre senza mai rivolgere il benché minimo cenno di saluto, nonostante ormai anche lei dovesse conoscere ogni centimetro di lui a memoria. Era ricercatissima: ogni regina ha la sua umile corte.
Una mattina, a pochi mesi dal termine del suo quinto e ultimo anno di liceo, arrivò a scuola più o meno alla consueta ora, salì le scale e si voltò nella solita direzione. Lei non c’era. Non che non fosse mai capitato che si assentasse, ma ogni volta la sua corte era comunque compatta al solito posto, attorno al trono vacante, come un diadema privato della gemma più grande, tentando vanamente di riscaldarsi a vicenda pur nell’assenza della luce. Questa volta non c’era nessuno. Giusto qualche dama di compagnia ripassava in cortile per l’imminente lezione. Fu preso dall’ansia: dov’era?
Entrò nell’atrio coperto e cercò con lo sguardo un qualunque volto familiare con cui passare gli ultimi dieci mesti minuti prima della campanella. Riconobbe un’amica del corso F, la salutò con lo sguardo e le si avvicinò proprio mentre si rigirava per continuare a parlare con qualcun altro.
Parlava con Melissa.
I pochi passi per raggiungerle furono i più lunghi della sua vita. Quando arrivò il silenzio era palpabile, sembrava che l’intera scuola stesse trattenendo il fiato, ma era solo una sua impressione: nessuno si era accorto neanche della sua presenza, e se anche lo avessero fatto, non se ne sarebbero interessati minimamente. La sua amica scambiò il mutismo dei due per imbarazzo e li presentò l’un l’altro, ma non poteva capire ciò che stava accadendo in quell’istante: i loro occhi erano per la prima volta a non più di quaranta centimetri, e nessun cataclisma potrà mai ricreare la tempesta di emozioni che turbinò in quello sguardo.
Lui tese una mano aperta, lei la ignorò e lo baciò due volte sulle guance.
– Ce l’abbiamo fatta finalmente, eh! – disse Melissa sorridendo.

Con quel sorriso cristallizzato nella mente, il ricordo sfumò nella calura di quel mezzogiorno. Vedendo giocare sotto casa sua beatamente tra i suoi piedi una volpe e il gatto che fu suo e di Melissa, una cappa si posò sul petto di Jacopo e iniziò con lente ondate a diffondersi fino alle più estreme periferie del corpo. Era paralizzato. Non riusciva a respirare, la saliva in bocca gli divenne veleno, sentiva le dita intorpidite e ogni singolo muscolo formicolante. Come fossero state la lunga conta che porta al primo fuoco d’artificio della mezzanotte, quelle nubi che si erano addensate sotto la sua pelle si scaricarono in un unico lampo: un violento brivido lo attraversò dalla nuca all’osso sacro, facendogli quasi male al suo passaggio. Immediatamente si scosse, portò la mano alla tasca e ne estrasse il cellulare. Ricordava di aver cancellato ogni traccia di lei dal suo cellulare, ma sentì il bisogno di vederlo con i propri occhi.
Aprì la rubrica alla “M” di Melissa ma non la trovò. Alla “A” di “Amore”, come l’aveva salvata per un periodo, nemmeno. Lesse i nomi uno per uno, lei non c’era. Fece mente locale: ricordava ancora a memoria il numero del telefono di casa.
Provò a chiamarla, ma gli squilli si seguivano l’un l’altro senza alcuna interruzione. Non rispose nessuno.

Attraversò a passo di marcia i pochi alberi, i quattro giochi e le due panchine che componevano l’unica area verde del quartiere, dove l’integrazione dava prova di sé tramite le vecchiette che parlavano in dialetti calabresi e campani con le badanti moldave, peruviane e ucraine riuscendo comunque tutte a capirsi alla perfezione, ed entrò come un pazzo nell’ambiente familiare del Bar del Parchetto.

Proprio mentre Jacopo si fiondava all’interno, un cliente, ignaro del maremoto emozionale che si era appena abbattuto a pochi passi di distanza da lui, tentò di sedersi non senza sforzo su uno degli sgabelli del bar.
Considerata l’età avanzata e l’enorme mole di costui, il gesto atletico non era certamente dei più semplici: dapprima provò a sedersi come se si trattasse di una qualunque sedia, sopravvalutando però la sua seppur non indifferente altezza; dopodiché si arrese e si decise a poggiare prima la parte destra del pachidermico fondoschiena, poi facendo leva con la gamba destra slanciò la sinistra, riuscendo a issarsi correttamente su quella sorta di trespolo. Nella concentrazione della scalata non si era però accorto di dare così le spalle al bancone, situazione che avrebbe potuto ipoteticamente ferire i sentimenti del barista e più concretamente complicare l’ordinazione della bevanda richiesta. Tentò così di ruotare di centottanta gradi verso destra, ma il suo tentativo di allineamento si interruppe all’incirca al grado centodieci: lo sgabello si era bloccato. La posizione sarebbe anche potuta andare bene, ma reputò quantunque scortese rivolgersi al barista restando di profilo. Invertì allora la rotta, e aveva quasi completato il suo movimento di rivoluzione quando urtò violentemente il ginocchio sinistro al bancone.
– Tutto bene? Vuole del ghiaccio? – chiese Ludovico, il barista, che aveva interrotto il suo lavoro di pulizia dell’acciaio dei frigoriferi per assistere da una posizione privilegiata a quello spettacolo per lui non insolito ma che lo divertiva ancora a ogni rappresentazione, seppur questa fosse terminata con un doloroso colpo di scena.
– No, vorrei un caffè – rispose continuando a frizionarsi la parte dolente.
– Ginseng, d’orzo o normale?
– Un caffè.
– Caldo o freddo?
– Chi lo beve freddo ha qualcosa da nascondere.
– Tazzina o al vetro?
– Come vuole, purché sia un caffè.
– Semplice, corretto, macchiato o schiumato?
– Un caffè e basta.
– Zucchero raffinato, di canna o dolcificante?
– Nulla! Vorrei solamente un caffè, la prego! – sbuffò il cliente, senza riuscire a nascondere però una nota di ilarità. – Se avessi voluto un caffè d’orzo schiumato con latte di soia e dolcificato con la stevia aromatizzata alla vaniglia servito in tazzina di vetro calda ma con cucchiaino freddo e piattino tiepido glielo avrei chiesto! Vorrei unicamente un caffè.
– Mi scusi, è che bisogna sempre essere vigili: lei non ha neanche idea di che cosa possono essere capaci i clienti di questo bar – rispose con un sorriso divertito, prima di accorgersi dello spaventoso aspetto di Jacopo: gli occhi sbarrati, circondati da un cerchio di pallore impressionante che staccava in maniera allarmante con il fondo paonazzo del resto del viso.
– Bro, ma tutto a posto? Vuoi un goccio d’acqua? Ma che hai visto, un fantasma?
– Peggio – sussurrò umettando leggermente le labbra con l’acqua offerta – Uno stuolo di fantasmi, un plotone di fantasmi, un cazzo di esercito di fantasmi. È successo qualcosa a Melissa.

Nel sentire quel nome, Ludovico si drizzò sul bancone fino a sembrare ancor più alto di quanto già non fosse.
Era infatti alto certamente più di un metro e ottanta, uno e ottantacinque forse, ma l’altezza era ben compensata dalle altre due dimensioni, larghezza e profondità: avrà stazzato sul quintale a occhio e croce e dimostrava perfettamente ognuno dei suoi molti chilogrammi, nonostante tentasse di tirare in dentro lo stomaco ogni qualvolta notasse di essere osservato da qualcuno, come se guadagnare qualche centimetro in meno nella zona addominale potesse nascondere anche quelli sulle cosce, sulle braccia e sul petto. Con la barba cercava di mostrare qualche anno in più, ed era evidente quanto impegno ci mettesse nel curarla: nonostante avesse iniziato a crescere da relativamente pochi anni era già piuttosto folta, delineata con precisione sulla gola e le guance, ben pettinata e lucida; un gioiello insomma, se non fosse stato per il fatto che sulla mascella erano ben evidenti le chiazze più rade dovute all’immaturità di quei fragili peli. Nonostante ciò, avrebbe adempiuto senza particolari difficoltà al suo scopo di mistificatrice anagrafica se solo non fosse stata intralciata dagli occhi: erano questi due specchi lucidi nei quali galleggiava placidamente un’enorme pupilla in legno di teak costellata di pagliuzze muschiate, due occhi che da un osservatore non disattento avrebbero potuto essere considerati “belli”, ma avevano al loro interno come un lampo d’infantile fibrillazione. Gli occhi di un bambino montati su un volto fuori misura.

– Che c’entra mo’ Melissa? – chiese forzando la voce per farla apparire calma. – Come è rispuntata fuori?
– Non è “rispuntata fuori” – lo rimbrottò Jacopo. – Oggi ho visto Barbabianca.
– Qual gatto che avevate?
– Proprio lui.
– Dove lo avresti visto?
– Qui fuori.
– Non è neanche mezzogiorno e già hai bevuto?
– ‘Fanculo, lo sai che non bevo prima delle… Boh, non così presto però. Barbabianca stava lì.
– Sai anche tu che è impossibile.
– Certo che lo so. C’era anche una volpe.
– Insieme al gatto?
– Sì, stavano giocando.
– Fa’ sentire l’alito.
– Non ho bevuto! È palesemente un segno. È successo qualcosa a Melissa.
– Bizzarra sensazione di déjà vu Ma tu non dovresti essere già in università?
– Ho fatto tardi stamattina, volevo appendere la stampa di un quadro che mi è arrivata oggi.
– Che ti sei comprato?
– Il Cristo morto.
– Cos’è, una bestemmia?
– Di Mantegna.
– Bestemmia d’autore, allora. Comunque in effetti non puzzi di alcol.
– Eh, te l’ho detto.
– Se non hai bevuto, allora hai le allucinazioni.
– Questo già è più plausibile. Ma ne sono sicuro, è successo qualcosa a Melissa.
– E tre. Cosa sarebbe questo “qualcosa” che le è successo?
– Non lo so… Ma devo trovarla.
– Jacopo… – sospirò – Andiamo con ordine: uno, non è successo nulla; due, se anche le fosse successo qualcosa, non sarebbero cazzacci tuoi; tre, non devi trovare niente e nessuno, anzi, non chiamarla, non cercarla, non pensarla… Cazzo, ci abbiamo messo un anno per lasciarci alle spalle questo incubo e tu mo’ ti ci tuffi di nuovo? Quattro, se me la nomini di nuovo ti spacco una tazzina in fronte, il che ci porta al punto cinque… Vuoi il caffè?

Prese il suo caffè ristretto al vetro, rigorosamente amaro, limitandosi a mugugnare qualche lamentela, che però non ebbe alcun effetto sul barista. Era suo amico da quando Ludovico, più piccolo di qualche anno, aveva letteralmente iniziato a parlare, e Jacopo sapeva benissimo che aveva ragione: metabolizzare la perdita di Melissa era stato un percorso lungo e faticoso, ma ce l’aveva fatta, e ora la situazione era improvvisamente tornata sopra il livello di guardia. Eppure, non riusciva a togliersi dalla mente che a Melissa fosse successo qualcosa.

Il pensiero lo accompagnò durante tutto il tragitto in macchina, scegliendo la musica. Si sedette accanto a lui nell’aula studio del Dipartimento di Lettere Moderne, dove passò il pomeriggio a studiare per l’imminente esame di Latino che gli stava togliendo il sonno e la voglia di vivere. Fu con lui durante la partita di calcetto settimanale con i compagni di corso, nella quale si distinse per il completo anonimato della sua prestazione. Lo aiutò a insaponarsi sotto la doccia. Rise al suo posto alle battute dei compagni al pub subito dopo, mentre lui soffriva in silenzio per una botta al ginocchio. Si sdraiò accanto a lui, infine, nel letto.