La nostra società ruota, purtroppo, intorno a forme di violenza, che con il suo gioco di equilibri e squilibri continua a porre in posizioni favorevoli pochi, a sfavore di molti.

Dati ISTAT della violenza sulle donne

Secondo i dati ISTAT, il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica. Il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale. Il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).

Numeri che, drammaticamente, non ci stupiscono più così tanto.

Ciò che ancora fa restare di sasso è che non possiamo camminare da sole per strada una volta tramontato il sole. Che quando saliamo sui mezzi pubblici spesso cerchiamo di rivolgerci con la schiena verso una parete per evitare che qualcuno posso allungare le sue mani sul nostro fondoschiena. Che delle volte abbiamo paura a scherzare troppo con un collega perché potrebbe far intendere altro.

Quelli elencati sono solo alcuni esempi delle forme di violenza, che spesso riguardano la sfera sessuale dell’individuo.

L’intervento della professoressa Gribaldo

A tale proposito, riportiamo l’intervento tenuto dalla professoressa Alessandra Gribaldo, docente di antropologia culturale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre, durante una conferenza tenutasi presso il Dipartimento di Scienze Politiche della medesima università, il 26/11/2019.

La prof.ssa Gribaldo ha raccontato della ricerca, da lei svolta insieme ad altre colleghe, dal titolo “Why doesn’t she press charges?”. La ricerca riguarda la violenza domestica in contesti diversi, prendendo in considerazione i casi di violenza domestica in Italia, Spagna, Regno Unito e Romania. Fuoriescono risultati differenti, dovuti alla normativa interna e molte altre caratteristiche. Ad esempio, in Romania, non si è potuto svolgere il lavoro etnografico (etnografia delle udienze) perché non vi erano processi. Esempio importante, in quanto a ciò si ricollega la discrepanza tra il dato statistico che viene registrato delle violenze e la frequenza reale del fenomeno, dovuto appunto ad una mancata denuncia della vittima o alla mancanza di un processo.

Allo stesso modo, la relazione con la legge è piuttosto complicata, in quanto:

  • il reato di maltrattamenti in famiglia è un crimine che prevede la dimostrazione della continuità di questo nel tempo;
  • ha un regime di procedibilità d’ufficio; la querela può avvenire anche da terzi, e non può essere ritirata. La donna può quindi trovarsi in tribunale senza volerlo, in quanto chiamata a testimoniare;
  • spesso è l’unica testimone della violenza, il che viene tenuto conto, ma comporta anche una verifica dell’attendibilità della testimonianza.

Le difficoltà dell’udienza

Nel momento dell’udienza la donna è “esposta” al pubblico per delle questioni che riguardano la sua sfera intima. Inoltre, vi è la potenzialità dell’incontro, ovvero il rincontrare la figura dell’imputato (magari dopo un arco di tempo). Il trauma, il dover ricordare questi eventi traumatici, soprattutto per la dimostrazione di continuità nel tempo del crimine. Queste donne sono chiamate a raccontare la loro storia, spesso complessa e districata, difficile da spiegare, frequentemente interrotte da momenti di silenzio, lacrime e “non ricordo”. In particolare, quest’ultimo viene visto come uno scandalo, in quanto non si percepisce come non si possa non ricordare un fenomeno del genere. Tuttavia, le vittime spesso tendono a rimuovere parti di eventi traumatici, e per comprendere tale fenomeno è necessario il proprio giudizio e riuscire ad assumere un’altra prospettiva, quella della vittima.

La continuità temporale

La continuità nel tempo della violenza è un altro punto insidioso della questione, in quanto difficile da verificare. Alla vittima vengono poste domande del tipo “quando è successo la prima volta?” o “la seconda?”. Spesso il giudice fa anche una domanda suggestiva per aiutare la donna a parlare, ad esempio “succedeva due volte al mese?”. La difficoltà nel raccontare la propria storia da parte della vittima è spesso elemento fondamentale per la difesa, la quale cerca di utilizzarla a suo favore e parla in maniera neutra. Ad esempio, anziché dire “è stata picchiata” si utilizzano frasi del tipo “sono volati degli schiaffi”, espressione che a livello comunicativo tende a decolpevolizzare l’imputato, in quanto non gli viene attribuita la responsabilità dell’azione.

Il ruolo della vittima

Anche il ruolo delle domande poste alla vittima non è da sottovalutare, in quanto sono risultate più volte a “favore” dell’imputato che della vittima stessa. Da una prima domanda come “chi ha fatto cosa, dove e quando?” si arrivava anche ad una domanda come “chi sei tu (vittima)?”. Alle vittime venivano fatte domande sul perché il loro compagno si fosse comportato così, spesso insistendo sulla questione, oppure domande come “se davvero la situazione era così, perché non l’ha lasciato?”, propinando l’idea che chi è veramente vittima di violenza può ribellarsi. D’altro canto, quando le vittime si sono mostrate più precise, puntuali e rivendicavano determinate questioni emergeva la difficoltà di trovarsi davanti un soggetto troppo attivo, troppo presente. Nasceva il sospetto che ci fosse una strumentalizzazione dietro, che il reato non fosse realmente accaduto.

L’art. 572 del Codice penale

L’art.572 del Codice penale italiano pretende un tempo di reclusione per reato di maltrattamenti in famiglia dai 3 ai 7 anni, tempo che può aumentare nel caso in cui chi subisce la violenza sia una donna incinta, un minore, un minore di 14 anni o una persona con disabilità, oppure in caso di lesioni gravi. Nel caso più estremo, ovvero di morte della vittima, la pena massima può raggiungere i 24 anni. Nonostante l’articolo tenda ad includere anche i casi più particolari della violenza domestica, vi è un grande dibattito tra la giurisprudenza, la quale spesso non tiene conto delle conseguenze psico-fisiche della vittima in seguito alla violenza, così come le situazioni che si creano all’interno del tribunale che, anziché “aiutare” chi ha subito la violenza, sembra quasi favoreggiare per l’imputato.

Immagine di copertina da Corriere della Sera