da ormai un paio di giorni che tutte le testate giornalistiche riportano la notizia dell’accordo circa la nuova direttiva europea sul salario minimo.
“The new rules will protect the dignity of work and make sure that work pays” è quanto ha twittato il presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Una frase importante, soprattutto per l’attenzione posta sulla dignità dei lavoratori, probabilmente una delle ragioni chiave che ha spinto la Commissione verso questa nuova direzione. Tuttavia, a livello legislativo, una direttiva è un atto normativo che vincola gli Stati Membri a perseguire un obiettivo, lasciandoli però liberi di scegliere le modalità di attuazione. Ciò è dovuto anche alla volontà di non ledere la sovranità dei singoli Stati e far sì che ogni governo possa adattarsi alla normativa nel modo più opportuno, anche a seconda delle circostanze in cui il suddetto Stato si possa trovare.
Un segno di speranza, per l’Italia, o l’ennesima presa in giro? Vediamolo più approfonditamente. Attualmente l’accordo raggiunto sulla direttiva sembra vertere verso l’istituzione di un quadro di riferimento per il salario minimo, ed il rafforzamento del ruolo delle parti sociali e della contrattazione collettiva. L’intento è quello di creare “un tenore di vita dignitoso” comune a tutti gli Stati membri, senza intralciare le diverse tradizioni in materia di welfare.
L’Italia, in questo contesto, è tra i sei Paesi dell’Ue a non avere già una regolamentazione in materia, rimettendo tale compito alle parti sociali coinvolte e all’interno dello stesso governo. Allo stesso modo, anche Austria, Danimarca, Cipro, Finlandia e Svezia non hanno una regolamentazione sui salari minimi.
La risposta non ha tardato ad arrivare, con tutte le forze politiche che hanno già espresso la propria opinione riguardo l’introduzione o meno di una legge interna che tuteli il salario minimo: Pd, Leu e Movimento 5 stelle si sono schierati a favore, sostenitori della necessità di imporre un livello orario di base; dall’altra parte, il centrodestra pone maggiormente l’attenzione sul taglio del cuneo fiscale, ovvero una riduzione delle tasse sulla busta paga dei dipendenti. Nonostante ciò, una proposta di legge esiste già: risale al 2018, da parte dalla senatrice Catalfo (M5S), ex ministra del lavoro durante il governo Conte I, e fermo in Commissione Lavoro al Senato da quel momento. Il ristagno è dovuto alle opposizioni all’interno delle forze di maggioranza, dal quale sembra che lo scontro principale riguardi proprio il salario di base: 9 euro netti come base oraria, a cui non è possibile derogare. Un tetto minimo attualmente non riconosciuto, secondo l’Inps, a circa 4,5 milioni di lavoratori, quasi il 30 per cento del totale.
Ciò che possiamo dedurre dagli avvenimenti degli ultimi giorni è che sicuramente una spinta esterna dall’Unione Europea è solo che positiva per il nostro paese, che torna a porre lo sguardo sulla questione dei salari; al contempo il nostro è un paese famoso per la stagnazione legislativa, alimentata dagli scontri tra le forze di maggioranza che non fanno altro che allungare i tempi di decisione. L’augurio è che si riesca a trovare un compromesso che garantisca l’obbligo di un salario minimo per tutti i lavoratori dipendenti, in modo che realmente la dignità di quest’ultimi venga tutelata, contrastando così i casi di turni di lavoro superiori alle 8 ore o i famosi compensi “giornalieri” che non servono ad altro che lo sfruttamento dei dipendenti.