Era il 22 ottobre del 2009 quando veniva dichiarato il decesso di un giovane di 31 anni, morto in ospedale dopo essere stato arrestato per spaccio di droga da cinque carabinieri e tenuto in custodia per una settimana.

Il volto tumefatto e il corpo traumatizzato di Stefano Cucchi, geometra romano, divennero il simbolo della battaglia contro gli abusi in divisa. Il 4 aprile, dopo 13 anni di battaglie legali per ottenere giustizia, la Cassazione ha condannato a 12 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale Alessio di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, due dei carabinieri che lo avevano portato in caserma e che erano stati identificato da un terzo militare presente, Francesco Tedesco, come autori del pestaggio.

La vicenda giudiziaria che la famiglia Cucchi, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo, ha intrapreso per ottenere verità e giustizia sulla morte del proprio caro che, nelle parole della sorella Ilaria, fu “massacrato di botte nei sotterranei di quello stesso tribunale dove per lui non c’era stata giustizia da vivo” è stata lunga e travagliata. Battaglia che purtroppo non è ancora finita. I processi collegati al caso Cucchi si possono suddividere in tre tronconi:

  • quello per negligenza e omicidio colposo contro alcuni operatori sanitari dell’ospedale Pertini di Roma, finito in nulla a causa dell’intervenuta prescrizione dei reati contestati;
  • quello per depistaggio contro alcuni militari che secondo il “supertestimone” Francesco Tedesco avrebbero fatto sparire un documento in cui aveva fatto rapporto ai suoi superiori sui fatti del 15 e del 16 ottobre;
  • quello contro i cinque carabinieri per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità, quest’ultimo prescritto nel 2017.

Per anni, nel tentativo di salvare a tutti i costi l’immagine pubblica delle forze dell’ordine, per anni fu fatta a pezzi quella del giovane Stefano, che da morto non poteva difendersi. Si attribuì la causa del decesso alla tossicodipendenza, all’anoressia, a una presunta sieropositività, a una caduta accidentale, all’epilessia di cui soffriva da anni.

Queste ipotesi, sempre respinte dalla famiglia Cucchi, non potevano spiegare quei segni riconducibili a percosse e abbandono sul corpo del giovane che una seconda autopsia aveva registrato: un grave stato di denutrizione, lesioni alla colonna vertebrale, alle gambe, alle mani, alla mandibola e alla testa. Il primo esame autoptico, invece, aveva escluso le violenze subite in carcere come causa della morte.

Nel 2019, il pubblico ministero Giovanni Musarà dirà che ci fu un “depistaggio scientifico” da parte dei carabinieri i quali, nonostante fossero in possesso di una relazione medica, tenuta segreta per anni, in cui si descrivevano le lesioni sul corpo del giovane e si evidenziava la necessità di ulteriori approfondimenti per determinare le cause della morte, scrissero tutt’altro nei verbali.

Le precarie condizioni di salute di Stefano Cucchi erano già state rilevate nella notte del 16 ottobre. Quando, dopo aver dichiarato di sentirsi poco bene, il geometra fu portato in pronto soccorso, dove il medico di guardia lo visitò, e scrisse nel referto che aveva la schiena fratturata e diverse lesioni sul corpo, tanto da non riuscire né a camminare né a stare in piedi. Ma quel giorno Cucchi rifiutò il rifiutò il ricovero e fu ricondotto in carcere. Senza cure adeguate, le sue condizioni continuarono a peggiorare fino alla morte, sopraggiunta all’alba del 22 ottobre.

Fonte foto: https://www.leggo.it/photos/MED_HIGH/72/24/6607224_04120345_stefano_cucchi_processo_cassazione.jpg