«In questo 11 luglio 1995 siamo nella città serba di Srebrenica, facciamo dono di questa città al popolo serbo». Queste le parole del generale serbo bosniaco Ratko Mladic mentre veniva intervistato dal giornalista serbo Zoran Petrovic, con le quali rassicurava la popolazione di Srebrenica, città musulmana in una regione a maggioranza serba della Bosnia. Mladic, circondato dai suoi miliziani, spiegava che a nessun abitante di Srebrenica sarebbe stato fatto del male.

Mladic continua l’intervista spiegando come i suoi uomini avessero portato in città cibo, acqua e medicine per la popolazione locale. Dopo l’intervista però, avviene il massacro più brutale che le guerre Jugoslave abbiano visto. I maschi dai 12 ai 77 anni furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, apparentemente per essere interrogati, in realtà vennero uccisi e sepolti in fosse comuni. I suoi uomini continuarono nei vari giorni successivi a cercare tutti i maschi di età militare che avevano tentato di scappare tra i boschi, per far sì che anche loro subissero lo stesso destino che da 24 ore, cioè dal pomeriggio del 11 luglio, spettava a tutti gli uomini musulmani della città. Nel giro di 72 ore più di ottomila bosniaci musulmani sarebbero stati uccisi nel peggior massacro avvenuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Donne, anziani e bambini, circa 20 mila, furono invece deportati e moltissimi furono gli stupri e le violenze.


Ratko Mladić, soprannominato poi il “macellaio dei Balcani”, comandante delle truppe serbo-bosniache entrò a Srebrenica, fu arrestato nel Maggio del 2011 in Serbia. Nel 1993 Srbenica era stata dichiarata dalle Nazioni Unite come “zona protetta”, ma ciò non accadde: una vergogna per l’intera comunità internazionale. Mentre molti tentarono la fuga nei boschi, in preda al panico e al terrore, il resto della popolazione si ammassò intorno alla base delle Nazioni Unite nella speranza che le forze di pace olandesi dell’ONU li proteggessero. I Caschi Blu guardarono tuttavia in maniera impotente le truppe serbe. La loro inazione, dovuta al fatto che le risoluzioni Onu votate fino a quel momento non davano alla Forza di protezione i mezzi per agire, è stata successivamente giudicata come “corresponsabile” del massacro da un tribunale olandese.


Srebrenica è l’esempio di quali possono essere le conseguenze del nazionalismo estremista, in una guerra civile tra etnie slave, dove la Bosnia fu vittima di un complicato conflitto di natura religiosa.
Ci sono voluti più di vent’anni per dichiarare i responsabili delle atrocità commesse in Bosnia. Il tribunale dell’Aja ha stabilito che il Ratko Mladić, si è reso colpevole di “genocidio, persecuzione, sterminio, omicidio e trattamento disumano nell’area di Srebrenica”.


Questi vari processi ci ricordano che sono gli individui a dover rispondere delle loro azioni, non i popoli interi. “I serbi” non hanno commesso alcun genocidio. Gli omicidi sono stati dagli ufficiali e dai soldati dell’esercito serbo di Bosnia, guidati da uomini come Mladić. Le figure politiche serbe, ancora oggi hanno una posizione ambigua: nel 2013 il presidente della Serbia si è scusato per il “crimine” di Srebrenica, ma si è rifiutato di ammettere che questo crimine fosse stato parte di un genocidio, gettando ancora ombre su quella che è stata la pagina più buia non solo di quelle che furono le guerre jugoslave durate 11 anni, ma dell’intera storia balcanica.